di Marco Fantini
Neurobiologia della ricompensa musicale: una prerogativa dell'essere umano
Il termine ricompensa si potrebbe definire come qualcosa di piacevole che viene dato in cambio di qualcosa di utile. Biologicamente si può considerare come ricompensa tutto ciò che provoca nell’individuo un senso edonico di piacere e lo stimola a ripetere il comportamento che ha provocato il gradevole risultato[i]. La ricerca scientifica sulla ricompensa biologica, partendo dall’osservazione del comportamento di ratti sottoposti a specifiche stimolazioni elettriche encefaliche[ii] [iii], ha portato alla scoperta del cosiddetto pathway della ricompensa. Esso coinvolge il sistema mesolimbico (in particolare l’Area Ventrale Tegmentale e il Nucleo Accumbens) ed è implicato – attraverso un sistema neurotrasmettitoriale dopaminergico – nel rinforzo di comportamenti biologicamente rilevanti ai fini della sopravvivenza, come l’assunzione del cibo[iv] e l’attività sessuale[v]. Anche nell’uomo è stato dimostrato che il rilascio di dopamina e l’attività emodinamica nelle aree mesolimbiche sono correlati al rinforzo di comportamenti adattativi riguardanti il cibo e il sesso[vi] [vii] [viii]. Tuttavia, con l’evoluzione del genere umano, anche altri aspetti hanno acquisito importanza ai fini della sopravvivenza della specie, uno fra tutti il guadagno economico. E’ stato infatti dimostrato che ottenere denaro attiva le aree mesolimbiche, risultando un evento fortemente rinforzante in termini adattativi[ix]. Ne deriva che l’uomo ha acquisito l’abilità di ottenere ricompense “secondarie” da condizioni che non necessariamente contengono intrinseci legami con la sopravvivenza. In realtà il genere umano è andato ancora oltre, sviluppando la capacità di attivare la via della ricompensa tramite stimoli con caratteristiche astratte e con scarsa rilevanza evoluzionistica. La musica è un ottimo esempio di questo fenomeno: nonostante lo stesso Darwin osservasse che la musica non ha alcuna conseguenza funzionale diretta e nessuna chiara funzione adattativa[x] , essa è ubiquitariamente diffusa nel genere umano dai tempi più antichi.
Negli ultimi anni il gruppo di Zatorre et al. ha condotto numerose ricerche sull’argomento, confermando che nel genere umano la musica è implicata nell’attivazione del pathway della ricompensa attraverso il rilascio di dopamina nel sistema mesolimbico. Questo meccanismo rappresenterebbe la base biologica delle sensazioni positive che proviamo quando ascoltiamo musica[xi] [xii] [xiii]. Ciò che nell’uomo consente l’innesco della ricompensa in risposta a stimoli estetico-musicali è rappresentato dalle complesse connessioni che esistono tra il sistema limbico e la corteccia, soprattutto nelle regioni prefrontali e temporali, che si attivano in risposta a stimoli musicali piacevoli e sono peraltro peculiarità evolutiva del genere umano[xiv] [xv] [xvi] [xvii].
Va da sé che il canto, espressione musicale umana per eccellenza, rappresenta un importante trigger per l’attivazione del pathway della ricompensa, generando piacere in chi ne fruisce (sia attivamente che passivamente). E’ stato infatti dimostrato che durante la produzione cantata vi è un’attivazione del Nucleo Accumbens che non si apprezza durante la vocalizzazione parlata[xviii]. Ancora, alcuni ricercatori hanno osservato che la terapia sostitutiva a base di dopamina nei pazienti affetti da morbo di Parkinson può, in alcuni casi, scatenare un “canto compulsivo”, rafforzando l’ipotesi di un’importante relazione tra il canto e i sistemi dopaminergici alla base del pathway della ricompensa[xix].
Effetti biologici del canto: ossitocina e immunoglobuline
Alcuni studiosi hanno indagato quali possano essere alcuni degli esiti biologici del canto, riportando risultati decisamente interessanti. Per esempio, una ricerca di Grape et al. [xx] ha studiato gli effetti di una lezione di canto della durata di 30 minuti su un gruppo di cantanti amatoriali e professionisti, riscontrando in entrambi i gruppi un significativo aumento dei livelli ematici di ossitocina, conosciuta anche come “ormone dell’amore” e recentemente indicata come uno dei possibili biomarkers dello stato d’ansia (in particolare bassi livelli di ossitocina sembrerebbero correlarsi e predire stati d’ansia nei bambini)[xxi]. Dopo la lezione, oltre agli incrementati livelli di ossitocina, il gruppo degli amatoriali riportava in effetti una sensazione di maggiore gioia e relazionalità, mentre i professionisti erano più orientati su obiettivi canori “tecnici” e badavano meno agli aspetti emotivo-sociali. Tuttavia i cantanti di entrambi i gruppi si sentivano più rilassati ed energici al termine della lezione, suggerendo un effetto ansiolitico ed energizzante da parte del canto.
Altri studi hanno riscontrato che il canto in gruppo sembrerebbe essere correlato ad una maggiore secrezione di s-IgA (anticorpi secretori) congiuntamente ad un incremento di emozioni positive e sensazione di rilassamento[xxii] [xxiii] [xxiv]. Per esempio il gruppo di Beck et al. ha analizzato le concentrazioni salivari di s-IgA nei membri di un coro di professionisti, rilevando – a parità di flusso salivare – un aumento delle concentrazioni anticorpali del 150% durante le prove e del 240% durante la performance, suggerendo che il canto potrebbe avere un effetto immunostimolante.
Il canto è stato indagato anche come possibile ausilio terapeutico in numerose condizioni patologiche, soprattutto di pertinenza neurologica. In una review di Wan et al.[xxv] sono stati presi in esame gli ambiti clinici in cui il canto trova più frequente impiego e le evidenze scientifiche a sostegno del canto come strumento terapeutico riportando che, per esempio, il canto sembrerebbe essere efficace nel trattamento della balbuzie, favorendo un miglioramento della fluidità del linguaggio[xxvi] [xxvii] [xxviii].
Anche nel morbo di Parkinson il canto sembrerebbe favorire risultati interessanti. Circa l’80% dei malati di Parkinson tende a sviluppare problemi vocali e di linguaggio, in alcuni casi tali da pregiudicare la qualità di vita. E’ stato dimostrato che un protocollo di riabilitazione vocale intensivo conosciuto come Lee Silverman Voice Treatment (LSVT) può essere efficace nel migliorare la produzione vocale dei pazienti affetti da Parkinson[xxix]. Alcuni recenti studi hanno indagato anche il canto come ausilio riabilitativo (in particolare il canto corale), con risultati incoraggianti dal punto di vista del miglioramento vocale, respiratorio e della qualità di vita dei pazienti Parkinsoniani [xxx] [xxxi].
Nell’ambito dell’afasia (possibile devastante complicanza di ictus o di altre tipologie di danni cerebrali, caratterizzata da perdita della capacità di produrre e/o comprendere correttamente il linguaggio) il canto può trovare ancora una volta utile impiego. In particolare, un protocollo chiamato Melodic Intonation Threrapy (MIT) sembrerebbe efficace nel favorire miglioramenti nelle afasie non fluenti (o afasie di Broca)[xxxii] [xxxiii]. Questi tipi di afasie sono causate da danni all’emisfero cerebrale sinistro (dove ha sede l’area di produzione del linguaggio detta area di Broca). E’ stato osservato che pazienti colpiti da afasia non fluente spesso riescono a cantare il testo di canzoni meglio di quanto riescano a recitare le stesse parole. La MIT, attraverso l’impiego di elementi musicali (melodici e ritmici), favorirebbe il recupero del linguaggio sfruttando la neuroplasticità cerebrale e le conservate capacità canore che fanno capo all’emisfero destro[xxxiv] [xxxv] [xxxvi].
Un’altra condizione che potrebbe beneficiare del canto è l’autismo. Esso è un disturbo che si caratterizza per la compromissione più o meno grave dell’interazione sociale e della comunicazione verbale e non verbale. Gli individui autistici hanno tuttavia abilità superiori di processamento uditivo e spesso dimostrano interesse nell’apprendimento musicale[xxxvii] [xxxviii] [xxxix]. Alcune ricerche hanno dato risultati incoraggianti circa l’impiego del canto in bambini e ragazzi autistici ai fini dello sviluppo del linguaggio, con miglioramento clinico e funzionale [xl] [xli] [xlii] [xliii]. In particolare è stato sviluppato il cosiddetto Auditory-Motor Mapping Training (AMMT)[xliv], che mira a favorire la produzione verbale allenando l’associazione tra suoni e azioni articolatorie attraverso il canto e attività ritmico-motorie bimanuali su percussioni. In uno studio di Wan et al[xlv]. l’applicazione dell’AMMT in un gruppo di bambini autistici non verbali ha dato risultati incoraggianti in termini di output vocale, suggerendo un possibile ruolo del protocollo nel favorire lo sviluppo del linguaggio nel soggetto autistico.
L'effetto "ice breaker"
Una delle più recenti e curiose scoperte riguardo al canto è che esso favorirebbe il cosiddetto effetto “ice-breaker”, vale a dire che aiuterebbe a rompere il ghiaccio. Uno studio di Pearce et al. [xlvi] ha indagato la capacità del canto di generare coesione sociale: i ricercatori hanno seguito per un periodo di sette mesi alcuni gruppi di adulti coinvolti in corsi di canto, paragonandoli a gruppi di adulti coinvolti in corsi di altro tipo (artigianato creativo e scrittura). Le classi di cantanti e non cantanti sono state analizzate e paragonate in tre momenti del corso: al primo mese, al terzo mese e al settimo mese rispetto a una serie di parametri quali la soglia del dolore, emozioni positive e negative e il grado di vicinanza e affiatamento percepito con i compagni di corso. Si è riscontrato che sostanzialmente tutti gli aspetti indagati andavano incontro a un miglioramento durante i corsi, indipendentemente dal fatto che si trattasse di corsi di canto o di altro genere. Quello che ha stupito i ricercatori è stata invece la velocità con cui i gruppi di canto hanno creato coesione interna e affiatamento rispetto agli altri gruppi. Nonostante alla fine dei sette mesi i livelli di coesione fossero simili tra le varie classi, i gruppi di canto hanno dimostrato un’impennata del grado di affiatamento già dal primo mese, significativamente maggiore rispetto a quella degli altri gruppi. In questo senso il canto di gruppo ha dimostrato di essere un valido strumento per “rompere il ghiaccio” aiutando a instaurare legami positivi di coesione in breve tempo. Conosce bene questo fenomeno chi ha avuto la fortuna di cantare in un coro o di restare “coinvolto” in una circle song…
In conclusione, non serviva certo la ricerca scientifica per svelare qualcosa che è sotto gli occhi di tutti, cioè che cantare aiuta a stare bene. D’altra parte è venuto prima il saggio adagio “canta che ti passa” di qualsiasi trial scientifico! Certo è che le interessanti conferme (e in alcuni casi scoperte) scientifiche riguardo al potere del canto in ambito bio-fisiologico, clinico e sociale possono aprire nuovi orizzonti di ricerca e di applicazione della voce cantata, ma soprattutto ci ricordano quanto sia difficile smettere di stupirsi e meravigliarsi di fronte a una disciplina così umana, ma anche così magica come il canto.
[i]Thorndike EL (1911) Animal Intelligence (Macmillan, New York).
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